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Pensieri sparsi sul "The best interest" dei minori

Cos'è realmente l'“interesse supremo del minore”?

Questa espressione, apparentemente semplice, viene  utilizzata da legislatori, giudici, psicologi e operatori sociali per giustificare decisioni di grande impatto nella vita di bambini e adolescenti.

Una riflessione più attenta ci mostra quanto sia complesso definirne i confini e garantire che venga effettivamente rispettato.

 

L'“interesse supremo del minore”, sancito dall'articolo 3 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989, è un principio cardine che permea tutto il diritto minorile e familiare.

Esso richiede che, in ogni decisione che riguardi un minore, sia data priorità al suo benessere, a prescindere da altre considerazioni di tipo economico, sociale o personale.

Tuttavia, la sua applicazione richiede un'attenta riflessione, data la natura multiforme del concetto stesso di "interesse del minore".

 

L’“interesse supremo del minore” come criterio giuridico indeterminato

Il concetto di "interesse supremo del minore" è un criterio giuridico caratterizzato da una certa indeterminatezza, il che comporta vantaggi e difficoltà per il sistema giuridico. A differenza di diritti chiaramente definiti e codificati, l'interesse del minore non è descritto in maniera rigida nelle norme, ma richiede un'interpretazione contestuale, che varia da caso a caso. Questo permette ai giudici una notevole flessibilità nell’adattare le decisioni alle specificità del singolo minore, ma introduce anche elementi di soggettività che possono rendere più complesso garantire una coerenza nelle sentenze.

La flessibilità applicativa: un requisito essenziale

La natura indeterminata dell’interesse del minore consente di tener conto delle molteplici variabili che caratterizzano ogni caso, assicurando che le decisioni siano sempre orientate al benessere del bambino in modo personalizzato. Ogni minore ha esigenze affettive, educative e relazionali uniche, influenzate dal suo percorso di vita, dai traumi subiti e dal contesto familiare o culturale. L’assenza di una definizione rigida permette ai giudici di considerare tutti questi aspetti, senza dover ricorrere a soluzioni standardizzate che potrebbero risultare inadeguate.

Questo approccio rende il diritto minorile più adattabile alle circostanze concrete e permette di valutare la situazione del minore nella sua interezza, integrando aspetti psicologici, sociali e relazionali. La giurisprudenza italiana e internazionale ha confermato la necessità di mantenere questa flessibilità, riconoscendo che l’interesse del minore non può essere ridotto a un insieme di criteri predeterminati, ma deve riflettere un’analisi complessa e dinamica, che tenga conto di tutte le variabili in gioco.

Il rischio della soggettività e la variabilità delle decisioni

Pur essendo necessaria per garantire un’interpretazione individualizzata, l’indeterminatezza dell’interesse supremo del minore comporta anche il rischio di decisioni disomogenee. L’ampio margine di discrezionalità concesso può portare a interpretazioni differenti, non solo tra tribunali diversi, ma anche tra singoli magistrati, a seconda della loro formazione e sensibilità. 

 

Questo problema emerge in modo evidente nelle questioni di affidamento, adozione o nei casi di allontanamento dalla famiglia d’origine. A seconda dei professionisti che hanno in mano il fascicolo del minore, l’interesse del minore può essere visto come prioritariamente legato al mantenimento dei legami familiari, anche in situazioni di rischio, oppure come legato alla necessità di garantire immediata stabilità attraverso l’inserimento in una nuova famiglia. La mancanza di criteri uniformi aumenta la probabilità di divergenze interpretative, che a volte possono complicare il percorso del minore verso una soluzione stabile e sicura.

Al fine di limitare l’eccessiva soggettività il legislatore ha  cercato di fornire indicazioni per orientare l’applicazione del principio dell’interesse supremo. La legge n. 184/1983 in Italia, integrata dalla legge n. 149/2001, stabilisce che le decisioni riguardanti i minori devono tener conto delle loro necessità affettive, educative e relazionali, senza però specificare criteri rigidi per la loro applicazione. 

A livello internazionale, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha elaborato un insieme di standard minimi, volti a tutelare i diritti dei minori nelle decisioni che li riguardano. Tra questi, l’importanza della tempestività nelle decisioni e l'adozione di misure meno intrusive possibile per garantire il mantenimento dei legami familiari, quando possibile, sono principi ricorrenti. Tuttavia, anche in ambito europeo, rimane centrale il concetto che l’interesse del minore deve essere valutato caso per caso, tenendo in considerazione la situazione specifica del bambino.

Per attenuare il rischio di una soggettività eccessiva, è fondamentale l’impiego di un approccio multidisciplinare nelle decisioni che riguardano i minori. L’interpretazione giuridica, da sola, non è sufficiente per definire l’interesse supremo del minore, che richiede invece il contributo di esperti in diverse discipline, come psicologi infantili, assistenti sociali e educatori. La valutazione del benessere del minore deve integrare competenze provenienti da diversi ambiti, per assicurare una visione completa e realistica della sua situazione e delle sue necessità.

 

L’indeterminatezza del principio dell’interesse supremo del minore, sebbene necessaria per garantire la flessibilità e l’adattamento alle specifiche situazioni, può introdurre margini di soggettività che rendono più complessa la coerenza delle decisioni giuridiche. Per evitare che questa discrezionalità diventi eccessiva, è essenziale fare riferimento a linee guida giurisprudenziali chiare e a un approccio multidisciplinare, che consenta di integrare la valutazione giuridica con contributi provenienti dalle scienze sociali e psicologiche. Solo così sarà possibile tutelare realmente l'interesse del minore, garantendo un equilibrio tra flessibilità e coerenza nelle decisioni

 

Il bilanciamento dei diritti: minore e famiglia d'origine

Uno dei nodi centrali nel diritto minorile è il bilanciamento tra il diritto del minore di essere protetto e quello di vivere nella  famiglia d'origine, una questione che emerge in modo particolarmente delicato nelle situazioni di affido e adozione. La Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989, ratificata dall'Italia, sottolinea il diritto del bambino a crescere, ove possibile, all'interno della propria famiglia naturale. La legge italian  ribadisce questo principio, sottolineando che l'affido debba essere finalizzato, dove praticabile, al reinserimento del minore nella famiglia d'origine e l'adozione come estrema ratio.

Tuttavia, la realtà spesso presenta situazioni in cui la famiglia d'origine non è in grado di fornire le cure adeguate o, in casi più gravi, rappresenta una fonte di rischio per la sicurezza e il benessere del bambino. In tali circostanze, emerge una tensione tra il diritto del minore a mantenere i legami biologici e il suo diritto a vivere in un ambiente sicuro, stabile e protetto.

Il ruolo del giudice nel bilanciamento dei diritti

Dal punto di vista giuridico, il ruolo del giudice è cruciale per risolvere questo delicato bilanciamento. Il giudice minorile è chiamato a valutare attentamente la situazione familiare del minore, conducendo un'indagine approfondita sulla capacità della famiglia d'origine di garantire non solo le necessità materiali, ma anche quelle affettive ed emotive. Tale valutazione non può basarsi unicamente su dichiarazioni di buona volontà da parte della famiglia, ma deve prendere in esame elementi oggettivi, come i progressi concreti compiuti dai genitori nel migliorare la loro situazione e la loro idoneità a ricoprire pienamente il ruolo genitoriale.

 

Uno degli strumenti utilizzati dai tribunali per verificare l’idoneità genitoriale è la consulenza tecnica d'ufficio (CTU), che coinvolge esperti in psicologia infantile e assistenti sociali. Attraverso queste valutazioni multidisciplinari, il giudice può acquisire un quadro più completo della relazione tra il minore e la sua famiglia d’origine, analizzando se vi sono i presupposti per un reinserimento o se, al contrario, prolungare il legame biologico potrebbe causare ulteriori danni.

 

Il principio di residualità: affido e adozione come soluzioni estreme

In linea con il principio di residualità, sancito dalla legge italiana, l'affido e l'adozione sono considerati strumenti estremi, da utilizzare solo quando è chiaro che la famiglia d'origine non è in grado di garantire le condizioni minime per il benessere del minore. Questo principio si fonda sull'idea che, se esistono delle possibilità concrete per un recupero della funzione genitoriale, queste debbano essere favorite prima di optare per soluzioni permanenti come l'adozione. Tuttavia, quando risulta evidente che tali possibilità non esistono o che prolungare l'attesa danneggerebbe ulteriormente il bambino, l'affido  e infine l'adozione diventano scelte inevitabili.

Il sistema giuridico, dunque, deve operare all'interno di un delicato equilibrio: da un lato, è necessario tutelare il legame naturale tra il bambino e la sua famiglia d'origine, garantendo a quest'ultima ogni opportunità per migliorare le proprie capacità genitoriali; dall'altro, si deve evitare che il minore resti troppo a lungo in una situazione di instabilità, che potrebbe compromettere il suo sviluppo psicologico ed emotivo.

 

Un aspetto centrale in questa valutazione è il fattore tempo. I processi decisionali che riguardano il futuro di un minore non possono permettersi lunghi periodi di incertezza. Ogni ritardo, infatti, rischia di compromettere il benessere psicologico del bambino, creando un senso di instabilità e incertezza. Per questo motivo, i giudici devono adottare soluzioni tempestive, ma ben ponderate, per evitare che il minore subisca i danni di una situazione familiare disfunzionale prolungata o di un affido temporaneo che si prolunga troppo.

Allo stesso tempo, le famiglie d'origine devono essere messe in condizione di lavorare su se stesse in tempi rapidi, con il supporto di servizi sociali adeguati e programmi di recupero delle capacità genitoriali. Il sistema sociale e giudiziario deve, quindi, garantire un sostegno efficace e tempestivo, per evitare che i problemi familiari si cronicizzino, rendendo irreversibile la separazione tra il minore e la famiglia d'origine.

 

La necessità di un approccio multidisciplinare

Per garantire che il bilanciamento tra i diritti del minore e quelli della famiglia d'origine sia effettuato in modo equo, è essenziale che il processo decisionale coinvolga una pluralità di professionalità. Oltre ai giudici, figure come psicologi, assistenti sociali e educatori svolgono un ruolo fondamentale nell'analisi della situazione familiare. Questi esperti, attraverso un approccio olistico, possono valutare sia i bisogni del bambino sia la capacità della famiglia d’origine di soddisfarli, evitando decisioni basate esclusivamente su criteri giuridici.

 

La collaborazione tra queste figure è essenziale per offrire una visione completa del caso e per evitare che il minore diventi l’oggetto di un conflitto giuridico tra i diritti dei genitori e il suo diritto a una crescita sana e sicura. L’approccio multidisciplinare consente, inoltre, di mettere in luce eventuali possibilità di recupero della famiglia d'origine o, al contrario, di confermare la necessità di soluzioni alternative, come l'affido prolungato o l'adozione.

 

 

L’importanza della partecipazione del minore nei procedimenti giuridici

Un ulteriore aspetto di riflessione giuridica è il ruolo della partecipazione del minore nei procedimenti che lo riguardano. L’articolo 12 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo sancisce il diritto del minore di esprimere la propria opinione su tutte le questioni che lo riguardano e che questa opinione debba essere presa in seria considerazione. Tuttavia, la partecipazione del minore nei processi giudiziari non è sempre facile da gestire, soprattutto quando il bambino è molto giovane o emotivamente coinvolto nella vicenda.

In Italia, il minore deve essere ascoltato dal giudice nei procedimenti di separazione dei genitori o di affidamento, a partire dai 12 anni (o anche prima, se ritenuto capace di discernimento). La legge prevede l’audizione diretta del minore, un momento delicato e cruciale in cui il giudice deve cercare di comprendere le volontà e i desideri del bambino, senza però caricarlo di una responsabilità eccessiva. La giurisprudenza italiana ha, tuttavia, riconosciuto che il diritto del minore a essere ascoltato non significa che la sua opinione debba necessariamente prevalere, soprattutto quando questa non coincide con il suo vero interesse. Questo crea un equilibrio difficile tra il rispetto dell’autonomia del minore e la necessità di proteggerlo da scelte che potrebbero non essere in linea con il suo benessere a lungo termine.

 

L’affido come misura temporanea.

L'affido, a differenza dell'adozione, è concepito giuridicamente come una misura temporanea, finalizzata a garantire al minore una stabilità provvisoria in attesa che la famiglia d’origine possa, eventualmente, riprendere il proprio ruolo. Tuttavia, nella pratica, l'affido si prolunga spesso per molti anni, causando confusione e incertezze sul piano legale e affettivo. Quando un minore trascorre periodi prolungati in affido, sorge la domanda su  quando e se l'adozione diventi una soluzione più adeguata per garantire la stabilità definitiva del bambino.

Il legislatore italiano  ha cercato di porre un limite alla durata dell'affido, ma la situazione rimane complessa.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte sottolineato l’importanza di non lasciare i minori in situazioni di incertezza per periodi troppo lunghi, in quanto questo può compromettere il loro sviluppo emotivo e psicologico.

Tuttavia, ogni caso richiede una valutazione personalizzata, e il passaggio dall'affido all'adozione non può essere automatizzato, ma deve essere guidato da un'analisi attenta del benessere complessivo del bambino.

 

 Come creare una cornice chiara e univoca nel quale lavorare nell'ambito del supremo interesse del minore?

 

ll concetto di “supremo interesse del minore” si colloca in un delicato equilibrio tra diritto e psicologia. Non è né esclusivamente una norma giuridica né una valutazione psicologica, ma piuttosto una sintesi di entrambe le discipline. Dal punto di vista legale, è un principio indeterminato che richiede al giudice di interpretarlo in base alle specificità del caso, valutando non solo le norme giuridiche applicabili, ma anche il contesto familiare, sociale ed emotivo del minore.

La psicologia, d'altra parte, fornisce gli strumenti per comprendere i bisogni profondi del bambino: le sue necessità affettive, il suo equilibrio emotivo, i suoi legami con la famiglia d'origine e la sua capacità di adattarsi a nuove situazioni, come l’affido o l’adozione. In questo senso, la psicologia supporta la legge, offrendo una prospettiva scientifica e umana che permette di “leggere” correttamente l’interesse del minore e di garantire che le decisioni prese siano fondate su una comprensione completa del suo benessere.

In definitiva, il supremo interesse del minore non è semplicemente una questione giuridica o psicologica, ma il risultato di un lavoro multidisciplinare. Solo un approccio integrato, che unisca l'interpretazione normativa alla comprensione psicologica, può realmente tutelare il diritto del bambino a crescere in un ambiente che ne favorisca lo sviluppo emotivo, sociale e affettivo in modo stabile e duraturo.

 

Per creare una cornice chiara entro la quale lavorare nell'ambito del "supremo interesse del minore", è fondamentale sviluppare linee guida più strutturate e condivise che possano ridurre il rischio di interpretazioni soggettive e incoerenti. Attualmente, uno dei principali problemi è proprio la discrezionalità con cui diversi attori (giudici, assistenti sociali, psicologi) affrontano i casi, generando disparità di trattamento e, in alcuni casi, soluzioni contraddittorie.

Ecco alcuni elementi che potrebbero contribuire a definire una cornice più chiara e coerente:

 

1. Formazione e aggiornamento continuo per gli operatori

Un sistema efficace richiede che tutti gli attori coinvolti, dai giudici agli assistenti sociali fino agli psicologi, abbiano una preparazione comune e aggiornata. Questo potrebbe includere corsi di formazione obbligatori sull'applicazione dell'interesse del minore, che integrino aspetti legali, psicologici e sociali. La creazione di una cultura condivisa tra questi professionisti aiuterebbe a ridurre le differenze di approccio.

2. Coordinamento maggiore tra le istituzioni coinvolte.

Una cornice chiara richiede un dialogo costante e strutturato tra le varie istituzioni coinvolte. Creare protocolli di collaborazione tra tribunali e servizi sociali, che coinvolgano anche psicologi ed educatori, garantirebbe un approccio multidisciplinare in cui ognuno ha un ruolo ben definito. Il coordinamento eviterebbe sovrapposizioni di competenze e decisioni divergenti.

3. Monitoraggio e valutazione dei casi

Spesso, una volta presa la decisione sull'affido o sull'adozione, il monitoraggio del caso diventa meno rigoroso. Servirebbero strumenti che permettano di valutare regolarmente l'andamento delle situazioni familiari, attraverso il coinvolgimento attivo dei servizi sociali, per garantire che il minore continui a essere tutelato. Valutazioni periodiche potrebbero anche offrire un riscontro su come l’interesse del minore sia stato interpretato in pratica e contribuire a eventuali correzioni legislative o operative.

4. Giurisprudenza e buone pratiche

Una maggiore uniformità nelle decisioni può essere raggiunta attraverso la valorizzazione della giurisprudenza. La pubblicazione e diffusione di sentenze e casi che rappresentano buone pratiche permetterebbe ai giudici e agli operatori sociali di fare riferimento a decisioni precedenti, creando un sistema più omogeneo.

5. Ascolto del minore

In molti casi, il minore stesso non viene sufficientemente ascoltato. Implementare procedure che permettano una partecipazione attiva e appropriata del bambino nei processi che lo riguardano aiuterebbe a rendere le decisioni più aderenti alla sua realtà e ai suoi bisogni. Strumenti di ascolto psicologico specializzato, che coinvolgano professionisti esperti, dovrebbero diventare una prassi consolidata.


L’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (CRC) 

In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.

Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati.

Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell'ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l'esistenza di un adeguato controllo.

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